Il bosco sta scuro e riposa
e sopra i prati è sospesa
la bianca nebbia meravigliosa.
Matthias Claudius
Correvo tra due filari di viti, davanti a me il gruppo dei più grandi, qualche nazionale fra loro, e noi i ragazzini che non riuscivamo ad andare più forte, per il freddo, il fondo di erba verde lunga e sdrucciolevole, e l’incognita di quanto sarebbe stata lunga la corsa. Di solito non ti dicono quanto è lunga, non lo sanno neanche gli organizzatori. Il naso non si sentiva, le mani a pugno per scaldare le dita, le gambe bene, grazie, le scarpette da pista coi chiodi, queste sì che tenevano. C’era anche qualcuno con le scarpe da ginnastica bianco blu, quasi da colonia, questi sì che scivolavano.
Eravamo arrivati in autobus, da Vicenza, la squadra Marzotto-Valdagno per il campionato veneto di Corsa Campestre, guidati dal nostro grande Allenatore Guido Perraro. In due anni di ginnasio non ci aveva fatto vedere una palla, in compenso riusciva a farci allenare con qualsiasi tempo sulla pista di trecento metri in carbonella a Piarda Fanton. Correre lì d’inverno, con il fiume vicino, faceva sembrare una gita andare per le campagne a campestri, questa volta Vò Euganeo, come se ce ne fossero altri da distinguere.
Era domenica mattina e durante il viaggio ci chiedevamo dove fosse Vò: in Veneto ovviamente, visto che era il campionato veneto, ma dove, visto che nessuno di noi, neanche i nostri compagni di classe del contado, sapeva di Vò. Pare che fosse in provincia di Padova, e i nostri orizzonti si allargavano verso sud…
Così “Libertà va cercando…” si declinò da sola in prima persona, “Libertà Vo’ cercando…”, e incominciava a girarmi in testa.
La strada lasciava a destra i colli Berici e seguiva tratti di canale, non si vedeva fuori un casso per la nebbiolina fastidiosa e pensavo che sarebbe stato freddo, ma tanto, dovevamo correre. Nebbiolina che andava a banchi, un momento c’era, un altro spativa.
Non era la prima volta che andavamo lontano da Vicenza, c’era stata la corsa di Rovigo, ma questa era un’avventura nuova, e poi dovevamo correre e prendere punti per il campionato veneto a squadre, scopo vero della nostra presenza in quest’ultima Thule delle campagne. A Rovigo eravamo usciti dall’autobus e ci eravamo rientrati senza aver visto niente del paesaggio, solo le bandierine segnastrada ogni tot metri e sulle deviazioni. Un ristoro dove gli alpini insistevano a darci vin brulè fu l’unica espressione umana che trovammo in quel biancore umido freddo e senza dimensioni.
Chissà oggi?
Dalla nebbiolina incominciarono a rivelarsi case e pali della luce e un paese che alternava frazioni abitate e campagna, fino a quando non ci trovammo davanti una chiesa e l’autobus si fermò. Dall’altra parte una grande barchessa a due grandi braccia e una piazza.
Dai vetri appannati scorgevamo tante facce incuriosite che guardavano in su proprio mentre noi ci stavamo cambiando. Mutande pulite, “càmbiatele, se poi ti fai male”, la divisa , braghette maglietta azzurra con fascia bianca maglia di lana sotto, calze e scarpette coi ciodi perché era tutto su sterrato o prato, e finalmente scendemmo nell’agone.
C’era una decina di squadre e ci somigliavamo un po’ tutti per l’età e per gli abbigliamenti improbabili. Qualcuno avrebbe corso in tuta, la maggior parte no, e visto il freddo ci guardammo bene dal fare riscaldamento come i soliti pazzi che correvano per due ore e poi appena partiti si sgion’favano…
Sulla linea di partenza la destra non vedeva la sinistra fondo di erba brinata, bianco su verde scuro. Il percorso era segnato da strisce di calce bianca, come nei campi da calcio, solo che scioglieva la brina e le righe si vedevano.
Numero attaccato con spilli di sicurezza e raduno, non si capiva tanto , tutti attorno: ” .. seguire le strissie bianche, atenti che in fondo al pra’ si va nella vigna “…
Al via una ventina di concorrenti partirono sparati sperando di passare per primi nella strettoia, ma intasamento ci fu lo stesso, e quando sopraggiungemmo noi, due grandi del primo gruppo, fermi ai lati, con i polpacci sanguinanti tiravano giù porchi lentamente e con coscienza.
Su per l’argine, giù dall’argine, pozzanghere rotte con ghiaccio ed erba scivolosa, poi la strada bianca con i ciodi che facevano fatica, e andando in salita all’improvviso una villa splendida, dove essere stata splendida, ma nella nebbia era magica ci seguiva cambiando, un grande braccio poi il corpo poi un muro, e poi in mezzo ad altre vigne, adesso la nebbia era fitta e stavamo scendendo per una stradina verso un ponticello. Lo passiamo, non lo passiamo, cerca per terra, vedete strisce bianche? Eravamo in tre, uno della mia squadra e uno che dalla lingua sembrava un indigeno, sai da che parte si va? risposta in lingua esotica, Cimbro?, ma negativa. Come ti chiami ? Rigòn. Cimbro. Allora passo il ponticello a cercare strisce bianche e ritorno indietro immediatamente, non li vedevo più. E adesso? avevamo passato ponti all’andata? anche sotto tortura non potevamo dirlo, ma perché adesso dobbiamo passarlo? Saltellavamo sul posto da fermi per non inghiacciare, sentivamo già sulla schiena quei piccoli colpi di freddo quando gli strati di maglie e magliette si stanno adeguando alla temperature della nebbia con i primi brividi di freddo incominciò a farsi viva la realtà e anche un certo spavento, dio santo ci siamo persi. Altrochè punti per il campionato, qui non sapevamo più dove eravamo, che figura de merda, no, non noialtri non possiamo permettercele, lasciatele a figure meno acculturate, chessò alla squadra di una tecnica di Grumolo, non a noi due del classico ed il loro Venerdì.
Il pontesello non era da passare, niente strisce bianche e allora via verso la sinistra sull’erba, mentre dalla nebbia ogni tanto spuntava un albero o qualche cespuglio,
Non c’era nessun riferimento e nessuna speranza di venirne fuori se non quella di incontrare prima o dopo qualche opera maggiore dell’ingegno umano, chissà la ferrovia o la statale, ma quali che eravamo in zona rurale depressa soggetta a provvidenze.
E correre nella nebbia era sconcertante, come mandare avanti una macchina che andava per conto suo dal naso ghiacciato in giù, addutori estensori articolazioni cuore-polmoni, spuare ogni tanto stando atenti a quelli dietro, piede giù sicuro, reagire subito alle buchette, controllare la trazione per non sbirissiare.
Dal naso in su c’era il ponte di comando, come nella Enciclopedia per le Famiglie in due volumi Bompiani XIX, il bel disegno che si tirava fuori in tre piegature dove si vedeva dentro il cranio una centrale telefonica con tante signorine piccole piccole che istradavano le telefonate dai vari arti e sensori al cervello, gestito da un distinto signore con la pipa. Al centralino arrivavano messaggi dai cannocchiali della vista e trombette acustiche dell’udito, mentre gusto e olfatto avevano signori in camici bianchi, evidentemente chimici, che analizzavano i reperti solidi ed aerei. Il sistema di evacuazione non era descritto.
E in qualche zona ben dietro il centralino mi stavo continuando a chiedere dove eravamo e perché non ero rimasto a dormire quella domenica.
Sì adesso correvo per non sentire la paura che voleva farsi strada, ma improvvisi venivano momenti di consolazione, brevi, molto brevi. Troveremo una casa, (sollievo) è domenica, qua, casso, vanno tutti a messa non troveremo nessuno(disperazione) ma ci sono sempre i CC , ma lo stesso che figura. La centrale idraulica dentro il cranio stava inviando delle lacrime agli occhi, ma per la madonna mi dissi, è il vento non sono io , e volevo piangere lo stesso. Ma senza voltarmi indietro e farmi vedere. Sentivo ancora correre dietro di me , ma anche che il ritmo dei colleghi calava. Stavamo mollando. Il mio compagno di squadra era fermo con le mani sulle ginocchia, ansimante, il Cimbro era quasi scomparso nella nebbia.
Guardavo in giro per capire e si vedeva per una decina di metri. Sul fossato a destra adesso si vedeva emergere dalla nebbia qualcosa, un ponticello e signor del signor una striscia di calce bianca , che lo attraversava e finiva dall’altra parte del fosso. Ci riunimmo e forse per il minor rumore che facevamo da fermi, incominciai a sentire da sinistra, da una stradina che dalla nebbia portava al ponte, un ritmo di sbuffate forti e di cadenzati passi di corsa.
La nebbia si aprì per lasciar passare in piena corsa il gruppo dei primi, una decina, con in testa due maglie azzurre senza maniche con scritto ITALIA, dei marziani, che sotto avevano solo una maglietta bianca, e anche i loro soffi forti di esalazione, anch’essi bianchi ma non durevoli, erano ritmati sul loro passo , dio solo sa da dove venivano.
Attraversarono il ponticello volando e poi subito a destra lungo l’argine sparendo presto nella nebbia. Rimanemmo un attimo a sentire questo treno che si allontanava e ci dicemmo, guardandoci e ridendo, “ andemo, casso”.
E via anche noi dietro nella nebbia con fiducia e risoluzione e adesso felicità di essere con gli altri e di sapere dove andare, e forse avevamo risparmiato qualche chilometro, e sentivamo che c’erano altri corridori dietro di noi ed era festa. Il Cimbro attaccò un discorso meraviglioso, con inizio corpo e fine, che non si capiva un ostia, e poi avanti di nuovo l’argine e la strada erbosa, dopo ancora in mezzo alle vigne accompagnati da tante strisce lungo il percorso, davanti al gruppone, dietro ai nazionali, fino a quando e incredibile ma vero dalla nebbia apparve la chiesa. Arrivati con classifica splendida. Ci scambiammo amicizia eterna con il nostro compagno di avventure e gli dicemmo che se avesse parlato del percorso saremmo andati a trovarlo e menarlo anche se abitava sulla più alta cima dell’Altopiano.
Faceva freddo e corremmo in autobus a cambiarci.
Mi tolsi le scarpette e vidi che la destra era perforata da un chiodo da sopra a sotto a destra dell’alluce, ma non mi ero fatto niente. Eravamo a portata della Madona di Monte Berico.
Quando eravamo ormai cambiati una voce locale aprì la porta del bus e chiese ” sio il Marsoto ?” , data conferma ci caricarono due cassette di bottiglie di vino. Poi salì il nostro Allenatore e ci disse “ma guarda cosa non farebbe la gente per dodici bottiglie, comunque non ve le do!”
Un modo gentile di dirci che avevamo vinto ma che eravamo ancora ragazzini, mentre l’autobus tornava nella nebbia che andando via vidi richiudersi sul magico paese di Vo’.
24 Febbraio 2020
sessant’anni dopo
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